Hikikomori, l’intervista: “Cercate il contatto con l’altro”

di ALICE PIROLI – “Come riconoscere la patologia? Apatia, isolamento ed eccessivo attaccamento ai social”: sono questi i tre segnali che la dott.ssa Anna Bandera, psicologa e psicoterapeuta, laureata in filosofia e psicologia, specializzata in età evolutiva, indica come quelli da tenere sotto osservazione per riconoscere un hikikomori.

“Hikikomori significa stare in disparte, isolarsi. È un fenomeno caratterizzato da un evidente ritiro sociale e da una volontaria reclusione dal mondo esterno” –spiega la dottoressa– “Queste sono le caratteristiche più evidenti che si riferiscono ad un meccanismo di estraneazione da tutto ciò che è il mondo reale, rifugiandosi interamente in quello virtuale”.

La dott.ssa Anna Bandera, psicologa e psicoterapeuta

Quello degli hikikomori è un fenomeno piuttosto diffuso anche se poco conosciuto, nonostante i numeri: coinvolge in prevalenza maschi di età compresa tra i 12 e i 30-35 anni e si stima che colpisca circa 120mila persone.

“I numeri sono alti e sono diventati ancora più importanti negli ultimi anni. È un fenomeno che nasce in Giappone dove l’esposizione ai device è sicuramente da sempre molto massiva, però ormai anche tra di noi, tra di voi, sono molto diffusi e in età evolutiva possono anche portare a questi disturbi con caratteristiche di patologia”.

Non solo i device, ma anche la tv e più in generale i social hanno un ruolo in questo fenomeno.

“Il loro ruolo è quello di sfociare in una dipendenza, quindi non se ne può più fare a meno, l’esposizione ai device diventa l’unica forma di relazione. Non esiste più nient’altro e il mondo inizia e finisce lì. Prevalentemente stiamo parlando di social network, video games, chat: questi sono i tre canali nei quali si dispiega questa patologia”.

Quali sono i segnali, le avvertenze, che un genitore, un professore o un amico dovrebbe cogliere quando vede un ragazzo iniziare ad entrare in questo vortice?

“In questi ragazzi manca ogni interesse verso le attività esterne come la scuola e le relazioni interpersonali. Si parla di un assoluto ritiro sociale che deve persistere per almeno sei mesi per parlare di patologia. In questo tempo non viene mantenuto nessun legame esterno con i compagni, gli amici e i colleghi, nel caso di persone con lavoro. Le uniche relazioni vengono attivate attraverso i canali di internet, le chat, i social, i videogiochi. Questi sono segnali molto evidenti, per cui se vi capita di avere amici che a un certo punto non sono più raggiungibili e sentite dai genitori che vivono in questa situazione chiusi per lo più nella loro camera, questa diventa il loro mondo. Qui mangiano, giocano, dormono. Il ritmo sonno-veglia viene completamente stravolto, per cui non c’è più la netta compartimentazione tra giorno e notte: diventa tutto un’unica dimensione caratterizzata dal virtuale”.

Per quanto riguarda la famiglia e la scuola, possono avere un ruolo positivo, negativo o sono dei fattori marginali?

“Sono fattori centrali perché sono i due principali contesti di riferimento di questi ragazzi. Devono avere un ruolo segnalando a professionisti le caratteristiche di vita che questi ragazzi mostrano. Certamente bisogna tenere in grande considerazione quello che accade, non pensare che passi da solo, ma chiedere aiuto”.

Chiedere aiuto è molto spesso un passo di consapevolezza della condizione e rivolgersi a degli esperti è fondamentale: è mai capitato a lei o ad un suo collega di avere in cura questa patologia?

“Sì, è capitato ed è preferibile lavorare in equipe. È importante agire attraverso un approccio terapeutico di tipo famigliare e poi in terapia individuale con il ragazzo. Spesso sono necessari alcuni terapeuti che possano poi relazionare tra di loro, con la famiglia e con la scuola, che di frequente viene o abbandonata o comunque interrotta, almeno nelle fasi acute del disturbo”.

L’uscita dalla sindrome di hikikomori dipende da svariati fattori: dalla gravità, dalla fase nella quale si interviene e soprattutto dalla motivazione al cambiamento che il ragazzo mette in gioco. Possono servire alcuni mesi, con l’intervento domiciliare di un educatore che agganci il ragazzo e gli consenta di riattivarsi nei vari contesti scolastici e sociali. In una prima fase, poi, sono preferibili dei colloqui online perché sono un canale più tollerato da parte dell’hikikomori. Ma il percorso, anche  se coronato da successo, non mette al riparo da eventuali ricadute.

“Teniamo conto che le caratteristiche personologiche di questi ragazzi fanno riferimento a tratti di timidezza, poca socialità e difficoltà nel sostenere relazioni interpersonali e da questa passione per i video. Queste caratteristiche resteranno come una predisposizione a delle ricadute. Ma nel momento in cui si smaschera il meccanismo che sta alla base di questo disturbo, attraverso il lavoro di psicoterapia, è possibile arrivare ad una risoluzione di eventuali ricadute in tempi più brevi”.

Se dovessimo incontrare questa patologia in un amico o in un familiare, quale consiglio ci darebbe davanti ai primi sintomi?

“Io parlo agli adolescenti in un momento dove il ritiro sociale è diventato molto frequente. Vi dico di non aver paura e di mettervi in gioco nel riacquistare contatto con il mondo, perché è dal mondo reale che imparate, riuscite a formarvi e diventare grandi. Nel momento in cui vi doveste accorgere che ci sono amici o conoscenti che fanno fatica ad uscire da questa bolla, soprattutto in questo anno pandemico, cercate di avvicinarlo e stargli vicino o di segnalare a persone adulte e per lui significative queste caratteristiche ed il rischio che comportano”.

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