«Facesti come quei che va di notte»

di MARCO BARONI* – «Dante non può essere ripetuto»(1). Con questa affermazione, che a noi lettori del 2021 può forse sembrare un po’ categorica, Eugenio Montale asserisce la grandezza impareggiabile dell’autore del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Paradiso XXV, 1-2). Ed è lo stesso Montale, uno tra i più profondi, acuti, sensibili conoscitori dell’opera dantesca nel Novecento, ad aggiungere che «quanto più il suo mondo si allontana, di tanto in tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di noi»(2).

Una dichiarazione illuminante, per noi che ne affrontiamo la lettura dopo sette secoli. Una distanza significativa ci separa, oltre che dal resto della sterminata produzione dantesca in lingua latina e in lingua volgare, dalla stesura delle tre cantiche della Commedia; ed è proprio questa distanza – ideologica, oltre che cronologica – a suscitare quella curiosità che, insita in ciascuno di noi, ci spinge a conoscere e approfondire i tempi, gli spazi, le storie, a instaurare un rapporto di dialogo con quelle figure che popolano i cerchi dell’Inferno, le cornici del Purgatorio, i cieli del Paradiso.

La lettura della Commedia, quando non è solo imposta da una normativa che ne prescrive lo studio negli anni del liceo, andrebbe intrapresa con lo stesso coraggio ma anche con quel sano e consapevole timore che si percepisce ogni volta che si sta per compiere un lungo viaggio in territori lontani: si parte determinati e coraggiosi ma, nonostante ciò, in buona compagnia di qualche esitazione; si chiede ospitalità in un mondo nuovo, vario, complesso; si viene poco alla volta a scoprire che questo mondo è costituito da tessuti che a loro volta si compongono di innumerevoli fibre saldamente intrecciate tra loro, ciascuna unica, ciascuna indispensabile, ciascuna insostituibile: sono i vari Virgilio, Paolo, Francesca, Farinata, Ciacco, Ulisse, Ugolino, Catone, Sordello, Stazio, Piccarda, Giustiniano, Tommaso, Francesco, Cacciaguida (si potrebbe proseguire ancora a lungo, con il rischio di travalicare con l’inchiostro i confini di questa pagina), fino ad arrivare allo stesso Dante, la cui presenza non avrebbe alcun senso se, a partire dal XXX canto del Purgatorio, fosse privata della compagnia di Beatrice. Franco Nembrini, saggista e critico dantesco, ritiene che se non ci fosse Beatrice, Dante – il Dante personaggio della sua stessa Commedia – non potrebbe esistere. È la sorgente attorno alla quale la sua persona si alimenta, cresce, si corregge. Dante incontra dunque una persona che gli cambia la vita e gli fa fare esperienza di tutto: del cielo, del mare, dell’infinito, dell’eterno, di Dio, della stessa profondità di sé. Ed è facile intuire come da ciò possano derivare tutto lo stupore, la meraviglia, l’ammirazione (il verbo miror, nella lingua latina, significa letteralmente meravigliarsi, stupirsi dopo aver conosciuto ma anche, e soprattutto, essere curioso di sapere) di cui un uomo, un viaggiatore, possa essere capace. E così, anche noi saremo capaci di grande meraviglia quando, a cammino avanzato, ci scopriremo non più semplici pellegrini, bensì cittadini a pieno titolo di una realtà che è la straordinaria rappresentazione delle nostre passioni, delle nostre aspirazioni, dei nostri tormenti e delle nostre inquietudini, delle nostre gioie, delle nostre stesse vite.

E allora, se è vero, come sostiene sempre Montale, che «la Commedia è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale»(3), vale la pena, senza esitazione, ringraziare e omaggiare il sommo poeta dedicandogli le parole che lui stesso fa pronunciare al poeta latino Stazio durante il dialogo con Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova, / ma dopo sé fa le persone dotte» (Purgatorio XXII, 67-69).

*Docente di Italiano, Storia e Latino del Liceo “M.G. Vida”
(1) E. Montale, Dante ieri e oggi in Id., Sulla poesia [1976], Milano, Mondadori, 1997.
(2) Ibid.
(3) Ibid.

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