I vaccini tra storia, ricerca e…polemiche

di BARBARA BODINI* – In questi giorni in cui la pandemia sembra non voler mollare la presa, molti di noi (io per prima) sono combattuti da una parte tra la visione del vaccino come unica e rapida soluzione di tutte le nostre sofferenze e dall’altra come amico tanto falso da arrivare addirittura a uccidere. E’ interessante constatare quanto spesso la genesi di un’idea sia in realtà più lontana di quanto pensiamo e come i modelli attuali proposti quotidianamente anche dai media abbiano origini nel passato. Andiamo alla scoperta di questo passato partendo da 300 anni fa circa.

Lady Mary Wortley Montague (1689 – 1762; Wellcome Library, London; wellcomeimages.org)

Nel 1718 la moglie dell’ambasciatore britannico dell’impero ottomano Lady Mary Wortley Montagu sovvertì le convenzioni del tempo introducendo in Inghilterra una sorta di vaccino, la “variolizzazione” che lei chiamò “innesto”. La variolizzazione utilizzava virus vivi raccolti dalle pustole del vaiolo, che venivano introdotti nella cute di individui non affetti per promuovere l’immunità verso la malattia. Questa pratica, sicuramente non priva di rischi, apparteneva alla tradizione popolare turca e incontrò molta resistenza da parte della classe medica inglese. Per promuovere la pratica, Lady Mary fece inoculare il figlio di quasi cinque anni e pochi anni dopo, quando un’epidemia di vaiolo colpì l’Inghilterra, anche la figlioletta.

Tra il 1750 e il 1770 in Europa, il dibattito sul vaccino diventò una delle crociate ideologiche dei filosofi: Voltaire nelle sue “Lettres Philosophiques” affermava:

 “Gli Europei continentali pensano che gli inglesi siano folli e scriteriati: folli perché procurano il vaiolo ai loro figli per evitare che si ammalino di vaiolo, scriteriati perché volontariamente infettano questi bambini con una malattia certa e dannosa per prevenire un male incerto”. Anche Voltaire però si unì al coro di intellettuali che portavano avanti una campagna culturale di promozione del vaccino e come tanti altri puntava all’obbligatorietà per vincere le resistenze dei nemici del progresso”

Daniel Bernoulli (1700 – 1782)

Oltre a Voltaire, anche Daniel Bernoulli si schierò a favore del vaccino. Il medico matematico e fisico era un “figlio d’arte”, la sua famiglia era composta da scienziati e a lui si deve il primato di avere studiato matematicamente la dinamica delle epidemie. Ma come spesso succede le idee troppo innovative non trovano riscontri positivi immediati: Bernoulli si trovava a vivere in un’Europa in cui il vaiolo imperversava, nelle città ad alta densità demografica come Parigi e Londra il 10% delle morti era imputabile a questo virus e in Francia anni prima anche l’erede al trono di Luigi XIV aveva perso la vita a causa di questa malattia.

In un articolo del 1766 Bernoulli trattò la questione vaccino applicando il calcolo delle probabilità: lo scienziato svizzero non conosceva il meccanismo di diffusione del virus, visto che all’epoca la microbiologia non era nota, e studiò quindi la situazione solamente dal punto di vista matematico. La domanda che si poneva era: “Lo Stato dovrebbe promuovere la vaccinazione di tutti gli individui alla nascita?”. Analizzando la situazione con l’aiuto dei numeri osservò che un parigino del 1760 aveva circa il 12,5% di probabilità di ammalarsi di vaiolo, mentre la probabilità di morire entro i due mesi dopo la somministrazione del vaccino era circa lo 0,5%. Con la somministrazione della vaccinazione si aveva un aumento dell’aspettativa di vita di oltre 3 anni: nulla, paragonato ad oggi, ma se consideriamo che l’aspettativa di vita all’epoca era di soli 26 anni, tre anni fanno la differenza. Inevitabilmente la risposta di Bernoulli alla domanda di partenza non poteva che essere un “sì” convinto.

Jean Baptiste le Rond d’Alembert (1717-1783)

Alle sue tesi rispose Jean Baptiste d’Alembert, enciclopedista, matematico, fisico, filosofo e astronomo francese tra i più importanti protagonisti dell’illuminismo. D’Alembert non condivideva il pensiero di Bernoulli nonostante fosse anche lui uno degli intellettuali schierati a favore del vaccino del vaiolo. D’Alembert riteneva infatti il calcolo delle probabilità un modello inadeguato allo studio del caso e poneva una obiezione di carattere filosofico: per lui l’inoculazione, come strumento per allungare la durata media della vita, assumeva un valore diverso a seconda che ci si collocasse dal punto di vista della società in generale, dello Stato, che disponeva di molte vite da mettere in gioco, o da quello dell’individuo, che ne aveva al contrario una soltanto.

Querelle Bernoulli-D’Alembert in passato, querelle televisive o sui social oggi: insomma, i tempi cambiano, ma anche nel 2021 è all’ordine del giorno imbattersi in dibattiti tra scienziati che discutono e polemizzano tra loro. Non è facile capire quale direzione prendere quando ci si trova sulla frontiera delle conoscenze e quando si tratta di costruire il futuro dell’umanità.

Se il primo ad applicare la matematica alle malattie contagiose fu Daniel Bernoulli, dimostrando che l’inoculazione artificiale del vaiolo umano comportava un rischio di morte inferiore rispetto al contrario, il primo a capire che la frequenza dei contatti tra infetti e suscettibili è l’elemento su cui costruire una matematica delle epidemie fu un medico inglese del Royal College, William Heaton Hamer nel 1906, che riteneva che le epidemie seguissero una sorta di schema ciclico. Non solo, Hamer aveva intuito che esisteva una soglia di “contagiabili” superata la quale un episodio epidemico poteva esplodere con tutta la sua irruenza. Per Hamer le epidemie si esauriscono quando il numero di individui suscettibili scende sotto una soglia necessaria ad alimentare l’agente patogeno, per poi scoppiare nuovamente quando il ciclo delle nascite fornisce alla malattia un numero sufficiente di nuove vittime potenziali.

Arriviamo poi a conoscere Ronald Ross che nel 1916 pubblicò un articolo in cui presentava la sua teoria matematica sul contagio partendo per la prima volta non tanto dai dati statistici, ma da equazioni. Il modello da lui elaborato sul numero dei suscettibili e sulla diffusione delle malattie infettive è ancora oggi alla base dei moderni modelli matematici. La storia di questo medico è curiosa: Ross nacque in India da famiglia inglese, primogenito di 10 fratelli, e all’età di 8 anni venne spedito in Inghilterra per la sua istruzione scolastica. Era affascinato dalle arti, ma il padre aveva deciso senza consultarlo che sarebbe diventato un medico. Il giovane Ronald riuscì a farsi bocciare all’esame di ammissione e anche l’anno successivo superò l’esame solamente per il rotto della cuffia;nel frattempo però vinse un premio scolastico per la matematica e, ancora studente, riuscì a diagnosticare la malaria a una donna inglese. Una volta medico, Ronald Ross venne incaricato ufficiale sanitario in India e qui ebbe la possibilità di studiare da vicino la malaria. Grazie a queste sue ricerche, nel 1902 vinse il Premio Nobel per la medicina, tra l’altro scontrandosi in dispute accese con un parassitologo italiano, Giovanni Battista Grassi, che negli stessi anni condusse studi sulla malattia e che difese fino all’ultimo anno della sua vita la priorità della scoperta.

Arriviamo a parlare di due scozzesi, McKendrick e Kermack, l’uno medico e l’altro chimico. Kermack cominciò a lavorare in un laboratorio di Edimburgo del quale Mckendrick era il direttore. Purtroppo a causa di un incidente perse la vista in giovanissima età, ma la sua forza di volontà lo spinse a continuare a studiare e a concentrarsi sugli aspetti teorici della materia. La sua formazione in ambito sia chimico che matematico, lo portò a cercare nuovi farmaci per la malaria e contemporaneamente verso lo studio di modelli delle epidemie.

Anderson Gray McKendrick (a sx) e William Ogilvy Kermack

McKendrik e Kermack insieme realizzarono nel 1927 un contributo alla teoria matematica delle epidemie ed il risultato del loro studio conteneva la descrizione di tre fattori fondamentali per un’analisi epidemiologica: il tasso di infezione, il tasso di guarigione e quello di mortalità. Il loro lavoro venne ampliato dal medico e malariologo George McDonald’s.

MacDonald studiò la diffusione della malaria incrociando decine di variabili sugli umani e sui vettori (le zanzare) per scovare quei minimi, ma decisivi cambiamenti «nei fattori fondamentali di trasmissione» ovvero quei «piccoli eventi dalle grandi conseguenze» che possono fare scoppiare l’epidemia ovunque. Sarà proprio questo studio a fargli trovare il parametro-chiave delle sue ricerche: il «numero riproduttivo di base» cioè il numero di infezioni che coinvolgono una comunità come conseguenza della presenza di un singolo caso primario non immune. Si tratta dell’ormai arcinoto R0 (dove R sta per reproduction rate), scandito dalla sua algebra tirannica: se è inferiore a 1,0 l’epidemia si insabbia, se è di poco superiore si espande, se è molto maggiore esplode.

“Desidero condividere con te una geniale intuizione che ho avuto, durante la mia missione qui. Mi è capitato mentre cercavo di classificare la vostra specie. Improvvisamente ho capito che voi non siete dei veri mammiferi: tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus.”

(Agente Smith nel film Matrix del 1999)

*docente di matematica del Liceo “G.M. Vida”
Immagine di copertina: Sir Ronald Ross, C.S. Sherrington and R.W. Boyce in a labor (da Wellcome Images)

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