L’intervista: “Malattie subdole, da soli non se ne esce”

di ALESSIA ANCONE – La dottoressa Michela Olivieri è specializzata in psicologia clinica e di comunità. Ha frequentato per quattro anni una scuola di specializzazione in psicoterapia e lavorato in un consultorio come supporto alla genitorialità e all’adolescenza. Ora è tornata nella sua Liguria ed esercita la libera professione in uno studio privato, dove incontra molti casi di disturbi del comportamento alimentare (DCA). A lei abbiamo chiesto di guidarci in questa realtà spesso fortemente giovanile.

La dott. ssa Michela Olivieri, psicologa clinica e di comunità

«Io tratto i pazienti dall’adolescenza in poi. I disturbi alimentari che colpiscono questa fascia d’età sono principalmente l’anoressia nervosa che riguarda la restrizione di cibo, la bulimia che identifica l’abbuffata, il binge eating che è l’alternanza tra abbuffata e la restrizione e il vomiting, ovvero l’abbuffata seguita da vomito, che viene spesso erroneamente confuso con la bulimia. La differenza è che in età preadolescenziale spesso si va a lavorare sui genitori e su quello che fanno in risposta alla malattia del bambino, mentre in età più avanzata si va a lavorare proprio sul disturbo e sulla persona malata».

Con la definizione “disturbo alimentare” si intende genericamente un rapporto disfunzionale con il cibo. Le cause possono essere diverse: un’insoddisfazione fisica personale, commenti esterni negativi, canoni troppo esigenti…e non appena si innesca questo processo ne scattano altri che imprigionano in un disturbo che diventa perpetuo. Ma un DCA può essere visto anche come una richiesta di aiuto e di attenzioni. Le statistiche dicono poi che spesso chi sviluppa una malattia di questo tipo è in età adolescenziale e per la maggior parte di sesso femminile: dati e tendenze chiare, ma non facili da spiegare.

«L’adolescenza viene maggiormente colpita dai disturbi alimentari, come da altre patologie, perché è l’età del cambiamento. Il cambiamento fa paura e lo si vuole evitare a tutti i costi. Ad esempio, il tentativo di un ragazzo che cade nell’anoressia è quello di privarsi di  ogni piacere (cibo, amici, affetti) e di bloccare la sua esistenza. Statisticamente parlando il 60% dei coinvolti sono femmine e il 40% maschi. La differenza sostanziale consiste nel fatto che è molto più difficile vedere un ragazzo in terapia. Questo anche perché il disturbo più frequente tra i ragazzi è l’ortoressia, ovvero un’alimentazione eccessivamente controllata, corretta e sana, oltre all’allenamento giornaliero: viene sottovalutata perché apparentemente non sembra un problema. Nel genere maschile, inoltre, un disturbo alimentare non suscita l’allarme che suscita nel genere femminile perché c’è un criterio che sparisce: l’amenorrea, l’assenza del ciclo mestruale. Risulta quindi più difficile individuare la malattia. Per giunta l’uomo magro viene più accettato socialmente della donna eccessivamente magra».

Se gli effetti dei DCA sono prevalentemente esteriori, la cause vanno invece ricercate dentro alla persona, spesso nei meandri più nascosti della sua mente.

«Bisogna differenziare le malattie. Per quanto riguarda l’anoressia il pensiero costante è quello di voler dimagrire, avere una determinata forma fisica e dal volersi astenere da qualsiasi cosa che faccia stare bene: coloro che ne soffrono si obbligano a restare in quella condizione. Si va quindi a lavorare su questa doppia personalità: da una parte ne vogliono uscire perchè non ne possono più, mentre dall’altra se ne escono dimostrano di non essere stati in grado di mantenere il controllo. Per quanto riguarda la bulimia si tratta invece di riempire un vuoto che si sente dentro: fuori c’è un mondo che mi divora e a mia volta voglio divorare anch’io. Le due malattie si distinguono quindi anche dal punto di vista emotivo».

Come si fa ad uscire da questo contrasto interno che si va a creare? Se ne può uscire da soli o è necessario l’aiuto di uno specialista, della famiglia e delle persone care?

«Da soli non se ne esce. I disturbi alimentari sono malattie subdole: si può avere anche un apparente miglioramento fisico, ma finché il pensiero resta quello non cambia nulla. Ci vuole l’aiuto di uno specialista e il supporto dei famigliari. La terapia non è solo sul soggetto, ma su tutta la famiglia che lo circonda ed è necessaria la presenza di uno psicologo o di uno psicoterapeuta per poter uscire dal meccanismo mentale. Ci sono poi casi in cui è preferibile il ricovero, perché se la persona ha un BMI troppo basso non è possibile lavorare, mancano le risorse cognitive per seguire il percorso».

E questo percorso di guarigione è lungo e tortuoso, non si sviluppa per un’unica via, ma va tracciato per ogni singolo soggetto, unico e originale, di cui vanno vinte le resistenze iniziali. Questo lungo periodo pandemico non verrà ricordato solo per i morti da Covid. La lontananza dalla scuola, dagli amici e dagli educatori ha contribuito molto all’aumento dei casi di disturbi da comportamento alimentare.

«Assolutamente si, purtroppo. E quelli che c’erano si sono aggravati, perché stare in casa significa  avere tanto tempo libero e tanto tempo per pensare. Inoltre i social non aiutano: i messaggi che passano per questi canali non sempre sono corretti e in queste malattie hanno sicuramente un peso».

Un consiglio per familiari, parenti, amici e compagni di scuola: come individuare una situazione precaria e magari evitare che si arrivi a una vera e propria malattia?

«Sicuramente il cambiamento della persona è il primo segnale. Quando non riconosci più il suo comportamento, quando si chiude e inizia ad essere molto rabbiosa verso se stessa, ma anche verso gli altri. Spesso anche gli occhi cambiano completamente. Nella maggior parte dei casi non ci si accorge del problema in famiglia, ma sono gli amici e gli insegnanti a farlo. Quello che consiglio è di rivolgersi subito a qualcuno che possa richiedere l’aiuto di uno specialista, perché prima si interviene più è facile il lavoro. Se invece non abbiamo molto confidenza con la persona che crediamo abbia un problema, si potrebbe iniziare a instillare in lei il dubbio che ci sia qualcosa che non va. Tante volte la persona è già nel cambiamento, ma è come se non lo sentisse. Consiglio quindi di parlare con la diretta interessata o chiedere a qualche sua amica più cara di intervenire».

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