Quando il problema è “quando”

di ALICE GEREVINI (1A Classico) – Il problema è quando le persone iniziano a morire.
Quando gli ospedali sono pieni, quando anche gli infermieri si ammalano.
Quando chiunque sembra a rischio, quando in nessun luogo ti senti sicuro.
Quando famiglie su famiglie non possono uscire di casa, quando le persone che ami sono ricoverate.
Quando il tasso di mortalità si alza e quello dei guariti diminuisce.
Il problema è che è sempre, dannatamente, troppo tardi.

21 febbraio, mattino. Mi sveglio, accendo il telefono e…SBAM! Il gruppo di classe è impazzito, 100 messaggi, cerco di leggerli tutti: il primo caso a Codogno, a 20 minuti di distanza da noi. “Preoccuparsi non serve a nulla”, “è solo psicosi”, dicevano loro…dicevo io.

21 febbraio. Ora di cena. Io e mia sorella dormiamo dalla nonna, per salutarla un po’. A tavola non si fa altro che parlarne, si sente ovunque. Tg, social, vicini di casa: il
coronavirus è già entrato nelle nostre teste, nella normalità. “Alice tra 5 minuti arriva la pizza, attenta che il fattorino non ti attacchi la malattia”. Una battuta innocua, al tempo non ci ho fatto nemmeno caso, ma piano piano battute di questo tipo ti portano ad avere paura delle persone. Sono quasi le 11, chiamo le mie amiche, è tutto così surreale: fino al giorno prima era un problema dei paesi orientali, e ora invece…
“Ma raga, di cosa vi preoccupate?! il tasso di mortalità è del 2%: tranquille!”.
“No Ali calma un cavolo! Se ci chiudono in casa poi…”.
“È vero poi come mangiamo”, mi viene da sorridere, allora il problema era solo non poter far la spesa, ma il loro allarmismo non mi faceva cambiare idea, io ero tranquilla.

22 febbraio. Mi sono appena svegliata, vedo il mio telefono che continua a illuminarsi: “CREMONA, SCUOLE CHIUSE A CAUSA DEL CORONAVIRUS”, si leggeva ovunque.
“Nonna è finito il pane…”
“Si lo so, oggi dobbiamo andare a fare la spesa, io ci vado sempre il sabato verso mezzogiorno perché non c’è mai nessuno”.
Arriviamo al supermercato, il parcheggio è pieno. La prima persona che vedo indossa la mascherina. Comincio ad agitarmi. Entriamo. Il supermercato è pieno di persone con carrelli stracolmi di cibo. Le persone aumentano, il cibo diminuisce, torniamo a casa, ma in poche ore i supermercati di mezza Lombardia si svuotano.

Il mio diario finisce qui.
Mi sarebbe piaciuto tenerne uno in questi giorni, ma purtroppo non l’ho fatto, anche se le mie giornate da quel 22 febbraio non sono cambiate più di tanto…e non è che io avessi chissà cosa da fare, sia chiaro: facevo i compiti, chiamavo le mie amiche e stavo in casa. Stavo in casa perché era la cosa giusta da fare; stavo in casa per rispetto delle altre persone; stavo in casa perché questa guerra l’avrei
vinta io, non lui; stavo in casa…ma è stato facile? Assolutamente no. Stare in casa per così tanto tempo ti porta ad essere più nervoso, più arrabbiato, più pigro, ti porta a non sopportare più le persone con cui hai sempre vissuto, ti porta ad odiare quel luogo in cui prima ti sentivi sicuro e protetto.
Per qualche strana legge quando sei fuori vorresti essere a casa e quando sei a casa vorresti essere fuori. Il problema è che ora non si può essere fuori: tutti lo sanno, eppure qualcuno esce. Esce senza pensare alle ripercussioni che la sua azione avrà su gli altri, se non su se stesso.

Sì, mi rivolgo a Te.
Il virus si può combattere con la scienza, l’egoismo no. È a causa di questa tua voglia di essere qualcuno che l’Italia sta morendo: chi te lo dice che il cameriere con cui hai flirtato tutto il pomeriggio sia sano? E se la tua vicina che hai incontrato sulle scale, ora è in ospedale, probabilmente è colpa tua, colpa del tuo ego, colpa del tuo non voler fare ciò che è giusto, colpa di quella dannata voglia di andare sempre controcorrente, per distinguersi dagli altri. E ringrazia il cielo che lei in ospedale ci è andata, non tutti sono così fortunati, non tutti si potranno permettere le cure che lei ha ricevuto; non tutti ce la faranno come ce l’ha fatta lei.
Spero che ciò che è successo ti abbia fatto riflettere e, se non l’ha fatto, nessun problema…ho ancora un paio di cose da dirti! Nelle due settimane in cui la tua vicina era ricoverata i suoi figli non hanno potuto andare a trovarla: non hanno potuto perché l’Italia non può più permettersi malati; non può più permettersi i posti; non può più permettersi macchinari. Non ce la fanno più nemmeno gli infermieri e i medici, con quelle maledette mascherine non lasciano trasparire nessun sentimento, nessuna emozione.

L’Italia è stata pronta a reagire, ma sta perdendo troppo: troppe vite, troppi soldi (sì, è inutile che dici che quello spritz serviva per far girare l’economia), troppo tempo,
perché ormai non ce n’è…ma se c’è una cosa che ancora non ha perso, questa è la speranza. Speranza di tornare a lavorare o a scuola, di tornare a fare ciò che abbiamo sempre fatto, di vincere, di normalità. Speranza di tornare a vivere.

Ho parlato di normalità e ti spiego qual è la normalità ora: è quella di svegliarsi e sentire aumentare il numero di morti, di avere come orologio l’ambulanza che scandisce il tempo ogni volta che passa. La normalità è avere paura, paura di tutto e di tutti, paura che quella persona che conosci non ce la possa fare, che forse non vedrai mai la fine di questa pandemia; paura di non rivedere mai più il tuo amico o di aver contagiato qualcuno.

La cosa che in assoluto manca più a me sono gli abbracci. Quanto mi manca abbracciare qualcuno…le mie amiche, i miei nonni che non posso vedere per ragioni di sicurezza, i miei compagni di classe. L’unica cosa che sto abbracciando è il concetto di normalità: ne ho bisogno, ogni giorno scoppio a piangere perché mi manca immensamente la mia routine, la strada che facevo per andare a scuola, l’ansia per i compiti, essere in ritardo per la messa, lamentarsi la domenica sera, uscire il pomeriggio con le amiche.

Tutti noi abbiamo bisogno che ritorni tutto come prima e non dobbiamo fare in modo che la paura rientri nella normalità.

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