La schiavitù, radici antiche di un male moderno

di FRANCESCO GAMBA – È vietata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dalla Convenzione Onu del 1956 eppure esiste tuttora. “Si calcola, che oggi ci siano più di 27 milioni di persone – donne e uomini ma anche bambini – che vivono in uno stato di assoggettamento non dissimile, nelle forme e nelle pratiche, da quello conosciuto in età antica e nei secoli della modernità”: questo stato è la schiavitù e le parole sono quelle del Prof. Giuseppe Patisso, docente di storia moderna dell’Università del Salento.

Il prof. Giuseppe Patisso (Storia Moderna – Univ. del Salento)

La schiavitù ha un passato che affonda le radici nella preistoria e che ha lasciato diverse cicatrici nella storia dell’umanità: una di queste viene ricordata il 25 marzo con la Giornata internazionale di commemorazione delle vittime della schiavitù e della tratta transatlantica degli schiavi. La tratta è stata la più imponente migrazione forzata della storia, durata dal 1526 al 1867 e ha interessato tra i 10 ei 12,5 milioni di uomini, donne e bambini africani che furono rapiti dalle loro terre d’origine e spediti attraverso l’Oceano Atlantico alle Americhe; qui, se sopravvissuti al viaggio, venivano torturati e costretti a lavorare senza paga per schiavisti europei e americani. La giornata istituita dalle Nazioni Unite, ricordando questa pagina drammatica della storia dell’umanità, vuole anche sensibilizzare sulle cause che hanno portato l’uomo a compiere un gesto simile: non solo motivazioni economiche, ma anche e soprattutto pregiudizi, discriminazione e razzismo che sono state in antichità e sono ancora adesso causa di schiavitù.

Giuseppe Patisso è uno dei massimi esperti italiani in materia, è docente del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’uomo dell’ateneo leccese e autore di numerose pubblicazioni. Gli abbiamo chiesto quali sono le principali cause che in antichità spingevano gli uomini ad avere degli schiavi.

In età antica la riduzione in schiavitù era un processo che poteva essere sia volontario che imposto. Esisteva, ad esempio, il costume di ridursi in schiavitù per poi vendersi a chiunque fosse intenzionato a comprare. (…) Al contempo esisteva nel mondo antico anche la pratica di ridurre in schiavitù in maniera coatta. Le motivazioni per le quali un uomo o una donna potevano essere ridotti in schiavitù coattamente erano veramente moltissime. Tra le principali vi era, senza dubbio, la guerra. (…)

Tra le cause che comportavano la riduzione in schiavitù in epoca antica vi erano anche l’accumulazione di debiti – ai quali non si era capaci di assolvere – oppure l’aver commesso determinati crimini. (…) Salvo poche eccezioni, gli schiavi dell’Europa antica e medievale erano per lo più impiegati nei lavori domestici e vivevano, comunemente, a stretto contatto con i loro padroni. (…) Lo schiavo era considerato, in linea di massima, un uomo che stava affrontando un percorso per riconquistare la propria libertà e non l’ingranaggio di un processo di produzione finalizzato al guadagno. 

Fu l’espansione coloniale, iniziata nel XV secolo, a mutare la considerazione che gli europei avevano della manodopera schiavile. Più l’apporto degli schiavi si faceva determinante per accumulare risorse e guadagni, tanto più rapidamente questi persero la loro dimensione umana. Da uomini divennero bestie e poi, con il passare del tempo, oggetti, il cui valore era legato esclusivamente alla capacità di lavorare. Poco dopo la fondazione dei grandi imperi ultramarini europei, la schiavitù perse quasi completamente la sua dimensione domestica per trasformarsi in una schiavitù capitalistica. Dal lavoro degli schiavi nel Nuovo Mondo dipendeva gran parte del sistema economico delle potenze del Vecchio Continente.  

Seppur debellata nelle sue forme più eclatanti e iconiche, la schiavitù esiste ancora e le sue cause non sono state rimosse.

La schiavitù è una istituzione millenaria. È una pratica così radicata nella storia dell’umanità che ha saputo adattarsi ai cambiamenti avvenuti nel corso dei secoli. Sarebbe sbagliato considerare la schiavitù come il risultato di determinate congiunture storiche, economiche o sociali. Essa è un prodotto culturale, frutto anche di scelte politiche fatte con lo scopo di sottomettere e controllare le “culture altre”. 

“Band of captives driven into slavery”, (litografia, 1880, Wellcome Library London)

Si osservi, ad esempio, ciò che è accaduto nei secoli della schiavitù e della tratta atlantica. Il graduale processo di mercificazione e de-umanizzazione della forza-lavoro africana non si può spiegare solo con ragioni economiche, ossia per la necessità di reperire forza-lavoro a basso costo.  Intervennero tutta una serie di fattori – culturali, religiosi e antropologici – che contribuirono a rendere il commercio degli schiavi una pratica, non solo legale e socialmente accettabile, ma addirittura giustificabile. Facevano parte di questi fattori le numerose teorie razziste che presero piede proprio nei secoli della tratta. Le etnie alle quali gli schiavi appartenevano erano considerate inferiori, persino meritevoli di essere ridotte in schiavitù. Tutti questi elementi, tutte queste teorie, costituiscono una parte rilevante del patrimonio culturale del mondo contemporaneo, la cosiddetta mentalità schiavista, che non è affatto scomparsa a seguito della formale abolizione della schiavitù, avvenuta per molti Stati dell’Europa nel corso dell’Ottocento. Proprio tenendo a mente che la schiavitù è anche e soprattutto un fenomeno culturale, si comprende la sua sopravvivenza fino ai nostri giorni. 

La schiavitù antica e quella contemporanea sono simili e allo stesso tempo diverse, spiega il prof. Patisso. In fondo il fenomeno non ha mai cessato di esistere, si è certamente trasformato, ma i suoi tratti caratteristici sono rimasti sostanzialmente immutati. Di fronte alle proibizioni che la legge ha introdotto nel tempo, le pratiche schiaviste non sono cessate nella quotidianità: hanno solo assunto altre forme, scivolando nell’illegalità e lontano dalla luce del sole. Una delle grandi differenze tra gli schiavi del passato e quelli di oggi consiste proprio nel modo in cui il mondo li percepisce, li riconosce e si rapporta con loro. Nel mondo classico, medievale o moderno “la schiavitù era una pratica legalizzata, oggi ci troviamo dinanzi ad una schiavitù che pare invisibile. Quando ci si trova dinanzi ad un fenomeno impalpabile, si può commettere l’errore di considerarlo un processo chiuso“.

È poi interessante riflettere sulla definizione spesso usata dai media di “nuova schiavitù” e domandarsi se questa pratica deriva sempre dal passato o ci sono delle sue forme che sono nate nei giorni nostri.

Sicuramente oggi si può parlare di “nuove schiavitù”. Ne sono un chiaro esempio il traffico degli esseri umani, lo sfruttamento del lavoro minorile, il mercimonio di donne che sono costrette a prostituirsi per accontentare le pretese dei loro aguzzini. Ma anche quando si parla di “nuove schiavitù” non bisogna mai dimenticare la loro dimensione storica. Possono essere variate le definizioni, può essere cambiata la percezione, ma nella concretezza si tratta di una schiavitù ancora oggi fondata su delle concrezioni culturali perpetuatesi nel corso dei secoli, su quella mentalità schiavista a cui in precedenza si è fatto riferimento. Per illustrare al meglio questo concetto, descriverò brevemente la pratica definita peonaggio, una tipologia di contratto di lavoro che si diffuse negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo, vale a dire negli anni successivi alla formale abolizione della schiavitù indetta da Lincoln nel corso della Guerra di Secessione. 

Il contratto di peonaggio prevedeva che un afro-americano pagasse i propri debiti attraverso la prestazione della propria opera. Spesso questo comportava lavori nelle piantagioni, in condizioni non dissimili da quelle nei secoli passati erano considerate proprie di uno schiavo. (…) Il debito, vero o presunto che fosse, risultava il più delle volte inestinguibile e, aspetto da non sottovalutare, se non estinto era trasmissibile da padre a figlio, di generazione in generazione. Anche ad un occhio poco esperto, pare evidente che il peonaggio fosse di fatto un modo per aggirare la legge, per eludere le norme che avevano in effetti sancito l’abolizione di qualsivoglia pratica schiavista. Come può essere definito il peonaggio, se non come una edulcorata rielaborazione della schiavitù per debito presente fin dal tempo dei greci e dei romani? Questo è un esempio paradigmatico di come la schiavitù si evolva adattandosi alle trasformazioni sociali, ma senza mutare in maniera sostanziale la sua natura originaria.

La schiavitù, antica o moderna che sia, nasce dunque dalle idee di razzismo e discriminazione che rendono lecita la disuguaglianza tra persone e lo sfruttamento di alcune per sostenere il benessere di altre. L’antica schiavitù, che a noi sembra così distante, in realtà è mutata solo nel modo in cui la società la vede.

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